I conti correnti a tassi negativi? Realtà in Europa, non in Italia

Cresce il numero di istituti continentali che applicano interessi sotto zero per le giacenze di grande importo della clientela. Svizzera e Germania sono in prima fila.

Tassi negativi applicati anche ai conti corrente dei clienti.

La «tassa» sui depositi, anche se limitata alle giacenze particolarmente elevate, è già realtà in terra Svizzera e Danimarca (dove i tassi sono ancora più bassi rispetto all’Eurozona) ed è anche diffusa in diverse realtà regionali tedesche. Più difficile invece vederla applicata in Italia, almeno nel breve termine.

In cosa investire nell’era dei tassi negativi

Avere ritorni interessanti negli investimenti, mantenendo un basso profilo di rischio in presenza di tassi sempre più negativi.

E’ un obiettivo temerario anche per i risparmiatori che, come quelli italiani, non vogliono da un lato sottoporre i loro patrimoni a rischi eccessivi e dall’altro neanche rinunciare a ricche cedole.

I titoli di debito a 10 anni di Austria, Francia, Germania, Svezia, Paesi Bassi, Svizzera e Giappone hanno rendimenti con il segno meno. Per quanto riguarda le obbligazioni corporate del Vecchio Continente, oltre il 25% del credito investment grade ha rendimenti con segno meno. Nella zona euro dove, se non sono negativi, la maggior parte dei titoli a reddito fisso investment grade presenta attualmente un rendimento inferiore all’1%.

Gli investitori che vogliono alti rendimenti dovranno assumersi maggiori rischi o sul fronte dei tassi d’interesse o sul fronte del credito. Ma gli investitori italiani quanto sono preparati a questo cambio di passo? E soprattutto lo possono fare rispetto alla loro preparazione finanziaria. E al loro profilo Mifid?

PERCHÉ AL RIALZO DEI TASSI LE OBBLIGAZIONI PERDONO VALORE

Supponiamo di aver appena acquistato un’obbligazione che costa 100 (obbligazione ‘A’), dura un anno e riconosce un interesse dell’1%. Fra un anno noi ritireremo il nostro capitale pari a 100 e l’1% di interesse; per un ammontare pari a 101.

Supponiamo che un attimo dopo aver comprato l’obbligazione ‘A’, venissero alzati i tassi di interesse all’2% annuo. Ora se acquistassimo un’ipotetica obbligazione ‘B’ ritireremmo fra un’anno 100 più il 2%; per un ammontare pari a 102.

Se volessimo rivendere subito l’obbligazione ‘A’ non troveremmo nessuno che ce la compra restituendoci i 100 da noi pagati; la ragione è che dopo un anno incasserebbe 101 e quindi maturerebbe un interesse dell’1% quando ormai i tassi di interesse sono stati portati al 2%.

L’unico modo per rendere appetibile l’obbligazione ‘A’ sarà dargli il valore corretto abbassandogli il prezzo in modo che a scadenza renda il 2% che è il corrente tasso di interesse attuale.

Lasciatemi passare alcune semplificazioni.

Inflazione, tassa occulta da 10 miliardi sui conti

L’assenza di alternative sicure spinge a tenere 1.400 miliardi sui c/c e i rendimenti sono a zero o poco sopra

I risparmiatori italiani continuano a navigare in una mare di liquidità. Gli ultimi dati di Bankitalia evidenziano a fine 2018 uno stock di quasi 1.400 miliardi di euro tra conti correnti, depositi e biglietti. Dal 2008, data simbolo della grande crisi, la massa di liquidità è aumentata di circa 300 miliardi.

Il fattore distintivo dell’ultimo decennio è stato il massiccio intervento delle banche centrali con i tassi spinti a zero. Questo ha determinato rendimenti nulli anche per i conti correnti. Oggi nell’area euro il tasso di riferimento Bce resta ancorato a zero.

La massiccia esposizione alla liquidità espone a rischi palesi (le regole sul bail in per chi ha oltre 100mila euro) e rischi occulti come l’inflazione.

L’inflazione continua a lavorare in silenzio e nel 2018 è stata in media poco sopra l’1%, inferiore alla media dell’area euro. Questo non impedisce che, in assenza di rendimenti, l’inflazione di fatto abbia “bruciato” almeno 10 miliardi di euro. Un costo implicito che impone comunque di valutare strategie alternative, almeno per una parte della liquidità non necessaria, ponderando i rischi. L’obiettivo è quello di puntare su asset “sicuri” a bassa volatilità che possano evitare perdite durante la vita dell’investimento, per poter essere ritirate in qualsiasi momento.

Non bisogna dimenticare inoltre anche il basso livello di educazione finanziaria, dove il nostro Paese è presente in fondo alle classifiche internazionali. Questo non agevola a trovare soluzioni alternative come i piani di accumulo su asset class con un profilo di rischio/rendimento più elevato. Spesso è difficile spingere verso altre soluzioni persone che sono tradizionalmente legate alla liquidità e percepiscono le asset class di investimento solo come rischio.

Rendimento? No grazie. Premio per il rischio. Premio per il… rischio buono!

Il rischio legato agli investimenti finanziari può essere un rischio “cattivo” oppure un rischio “buono”.
Il rischio buono è quello che consente all’investimento finanziario di avere un corretto rendimento nel tempo. Quindi è un rischio che vale la pena di assumersi. Il rischio cattivo si riconosce facilmente. Ogni investimento in un singolo titolo, di uno specifico emittente, anche quando  porta un nome conosciuto è esposto al rischio di default, al rischio di fallimento, di perdita totale del capitale investito. Non vale mai la pena di assumersi questo rischio in dose tale da rendere devastante per il nostro capitale. A meno di non voler diventare imprenditori e non semplici investitori.

Se poi la sua azione cresce di prezzo, la tentazione sarà ancora più forte. Ma il rischio che ci assumiamo è intollerabile. E questo vale anche per le obbligazioni emesse da una società o da una banca. Insomma è facile: non bisogna mai investire, concentrando le risorse, nel singolo titolo azionario o obbligazionario perché è un rischio “cattivo”. Il rischio buono, invece, è quello che è legato ad investimenti in paesi, aree geografiche, un insieme di settori, dove l’investimento è molto diversificato in centinaia di titoli di emittenti diversi. È rischio buono perché non è presente il rischio di perdita del capitale investito. È rischio buono perché, nel corretto orizzonte temporale, il capitale finale sarà superiore al capitale inizialmente investito. Nel breve periodo, però, i mercati finanziari hanno il compito quotidiano di dare un prezzo ai titoli. Nel breve periodo i prezzi oscillano, cercando di orientarsi nella corretta direzione, ossia il valore dell’insieme delle iniziative economiche quotate. Quando investiamo in modo diversificato vediamo delle oscillazioni attorno ad un percorso che tende a salire. Queste oscillazioni sono il rischio che corriamo. Se il nostro orizzonte temporale di investimento è lungo, le oscillazioni negative sono compensate da quelle positive e nel tempo rimane la progressiva crescita del capitale investito. Si comprende subito perché in precedenza abbiamo ricordato quanto sia importante, cruciale, avere chiaro il nostro orizzonte temporale di investimento.

Un investimento non è una scommessa. Le scommesse possono essere vinte o perse. Ma con i nostri soldi, frutto di sacrifici e destinati ad importanti obiettivi di vita, non possiamo permetterci il lusso di giocare, non possiamo effettuare scommesse. L’investimento è dunque un’operazione, non banale, ovviamente, che DEVE essere costruita in modo che siano soddisfatti i due obiettivi essenziali: la protezione del capitale ed un soddisfacente rendimento. In un certo senso, un investitore deve vincere sempre, considerando ragionevoli obiettivi di rendimento nel tempo. Un investimento non garantisce un rendimento costante nel tempo. I mercati oscillano e dunque altrettanto farà il valore periodico di un patrimonio investito in mercati finanziari diversificati. Valutato nel corretto orizzonte temporale, però, un investimento è un percorso che porta progressivamente il capitale investito a crescere.

Borse, quanto manca per rivedere i massimi? A Wall Street l’1%, a Milano il 130%, al Giappone 30 anni

Se alla Grecia il record manca da 20 anni all’Italia ne mancano 19. In pochi forse lo ricordano, ma il 6 marzo del 2000 l’indice delle blue chip milanesi valeva 50.108 punti. Oggi, nonostante il +19% messo a segno da inizio anno, siamo poco sotto i 22mila: dovrebbe risalire del 129% per ritornare alla massima espressione.
Russia, Brasile e Svizzera hanno aggiornato tra marzo e aprile di quest’anno i loro massimi.

Millennial, tre su quattro vorrebbero l’educazione finanziaria a scuola

Una ricerca di Skuola.net mostra la scarsa conoscenza che i ragazzi hanno dei più elementari concetti economici, ma in tanti chiedono corsi ad hoc a scuola

Come gestiscono i propri soldi i nostri ragazzi? Praticamente al buio, ma in loro c’è il desiderio di far luce. Solamente il 23% dei ragazzi intervistati ha un conto corrente, ma tre su quattro vorrebbero che l’educazione finanziaria rientrasse nel piano didattico delle scuole.

dati sul sapere non sono una novità: le classifiche ci collocano agli ultimi posti in Europa per la conoscenza delle nozioni di economia più elementari.

Carte di credito e carte di debito.

Pessimo, ad esempio, è il rapporto che gli adolescenti hanno con gli strumenti di pagamento più diffusi. Quasi tutti confondono il funzionamento delle carte di credito con quello delle carte di debito (e viceversa): per più di 7 ragazzi su 10, infatti, quando si effettua un pagamento con la carta di credito, i soldi vengono prelevati subito dal conto corrente, mentre con la carta di debito il prelievo delle somme viene effettuato dopo un po’ di tempo. Peccato che sia esattamente il contrario e che solo il 28% dà la risposta corretta.

Bitcoin

Le uniche cose su cui gli studenti vanno quasi a colpo sicuro sono quelle di cui si parla frequentemente. Se, ad esempio, gli si chiede cosa sia il Bitcoin il 68% sa che è una moneta virtuale, utilizzata soprattutto su Internet (ma il 16% sostiene che sia la moneta in cui viene convertito l’Euro quando si paga online). Ancora meglio se gli si chiede cosa sia la Banca d’Italia: oltre l’80% dei ragazzi risponde correttamente che si tratta della banca centrale italiana, quella che controlla le altre banche (ma c’è comunque un 19% che pensa sia un normale istituto bancario, del tutto uguale agli altri).

Il quadro, come visto, è abbastanza allarmante. E pensare che basterebbe poco per invertire la tendenza. La scuola il luogo più adatto per ripartire. Perché sono ancora troppi gli istituti che latitano: solamente il 16% dei ragazzi dice che alcune ore della didattica sono dedicate all’educazione finanziaria; il 26% ha svolto qualche rara lezione; ma il 58% non ha mai affrontato l’argomento in classe. La voglia di approfondire questi temi, però, è molto più diffusa e coinvolge tre quarti degli studenti: per il 47% l’educazione finanziaria dovrebbe rientrare nella normale didattica e un altro 28% vorrebbe che la scuola istituisse dei corsi (ma facoltativi) in materia.